La coltivazione del riso in Sicilia nel XVIII secolo

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La Coltivazione del riso nella Sicilia Orientale e i Baroni di Sigona

La necessità dell’acqua e del suo sfruttamento per la coltivazione del riso è stato da sempre un problema per coloro che la utilizzavano a scopo economico. Tale pratica, infatti, necessitava di molta acqua e, per questo, le acque dei fiumi e delle sorgenti erano molto importanti per le comunità ma, altresì, una fonte d’impoverimento qualora questi corsi d’acqua fossero stati protagonisti di eventi distruttivi (come il Gornalunga che ho preso in esame nella mia tesi di laurea) che cancellavano in brevissimo tempo tanto lavoro e fonti di sostentamento per la popolazione che viveva in quei luoghi.
I Romani per primi avevano introdotto un sistema di acquedotti per la canalizzazione dell’acqua e gli Arabi, poi, la avevano canalizzato in “saie” per uso agricolo.
Recenti studi hanno ci hanno fatto conoscere la coltivazione del riso qui in Sicilia, in precedenza quasi del tutto sconosciuta. Uno dei più interessanti contributi a questo studio ci è stato dato dalla Dott.ssa Maria Concetta Calabrese che, nel suo ultimo libro ha descritto con dovizia di particolari ogni fase di questo processo produttivo. Secondo Carmelo Trasselli, inoltre, in alcuni luoghi, come ad esempio a Campofelice di Roccella, dove prima era coltivata la canna da zucchero furono poi, per un mutamento del regime idrico, impiantate le coltivazioni del frumento e del riso. Lo storico scrive che la sostituzione della canna con il riso si verificò lungo la costa settentrionale della Sicilia. Il La Via aggiunge anche che in Sicilia, a differenza dell’Italia continentale, non c’erano terreni a perenne risaia, ma essi erano soggetti alla rotazione agraria. Con decreto dell’1 Gennaio 1820 il governo borbonico per motivi igienici ne aveva proibito la coltivazione in luoghi prossimi all’abitato ed incoraggiato la coltivazione del riso a secco. Il fiume che io ho analizzato è il Gornalunga, lungo 81 chilometri, nascente dal Monte Rossomanno, nei pressi di Aidone e chiudeva il suo corso nel golfo di Catania. Durante questo lungo percorso s’incrociava con numerosi corsi più piccoli, come il Caltagirone (attualmente non più esistente), e fiumi di simile grandezza, come il Simeto ed il Dittaino. La coltivazione del riso, lì adottata (praticata in Sicilia ed in altre parti d’Italia come il Piemonte, la Lombardia ed in Francia) era stata introdotta nell’isola degli Arabi e si era diffusa in diverse aree dal Catanese all’’Ennese (Biancavilla, Adrano, Centuripe, Regalbuto), nell’Agrigentino, nel Palermitano, a Termini e, come già detto prima, a Campofelice di Roccella.
La prima condizione per la coltivazione era che la terra godesse di una buona irrigazione e che il terreno fosse selcioso o arenoso. Gregorio Barnaba La Via nel suo trattato di agricoltura scriveva che per coltivare il riso si appianava il terreno e si divideva in  “caseddi”, nelle quali verso la fine di marzo s’immetteva l’acqua e si spargevano le sementi (che erano già state tenute in acqua e  coperte d’erba). Dopo la semina, il terreno veniva svuotato dell’acqua ed il riso rimasto in superficie metteva brevemente le radici. Dopo che le pianticelle erano cresciute al punto giusto , s’immetteva di nuovo l’acqua.
Tra Maggio e Giugno, poi, si ripulivano le piantine dalle erbe infestanti e, quando a settembre il riso giungeva a perfetta maturazione, con la risaia asciutta e con le spighe dorate, il riso veniva falciato e raccolto in frasca.
Si conservava una parte per le sementi da piantare per l’anno successivo, quindi si compivano le prime operazioni di pulitura sull’aia, dove il riso veniva “macinato” da muli, cavalli, o giumente, fatti girare attorno ad una colonna e poi si portava ai mulini per la “brillatura”. Qui i chicchi di riso erano pestati da pistoni, mossi dalla rotazione del mulino, rivestiti nella parte finale da sughero per fare distaccare la pula; infine, il riso, dopo ulteriori passaggi, veniva pesato e, successivamente, posto in dei magazzini per essere conservato. I gabelloti del feudo di Cuticchi, sosteneva lo scrittore, disponevano dell’acqua del fiume Gornalunga come fosse la propria per la coltura del riso e realizzavano delle “prese” (aperture, ndr) nella parte inferiore del fiume per impedire la naturale pendenza dell’acqua e provocare l’inondazione dei terreni vicini coltivati a riso. I primi ad accorgersi della possibilità di coltivare riso nei pressi di quel fiume furono i Baroni della Sigona, Michelangelo e Giuseppe Agatino Paternò Castello. Michelangelo, soprattutto (cadetto dei principi di Biscari), si ritrovò erede dopo il terremoto del 1693 dei beni di molti familiari morti nel disastro e operò su due versanti (urbano e feudale), occupando anche importanti cariche politiche.
Si incaricò della costruzione di un acquedotto che trasportava l’acqua per la coltivazione del riso dalla sua proprietà fino a Catania.  Il figlio Giuseppe Agatino fu anche lui un abile imprenditore che incrementò il commercio del riso sia nel suo feudo che negli altri. A metà del XVII ° secolo ci fu una lunga contesa molto grave tra l’Università di Caltagirone e i Baroni dei feudi attraversati dal Gornalunga. Il fiume aveva inondato i feudi confinanti provocando la perdita delle colture (tra cui quelle a riso)  e molti danni.
Il feudo più colpito fu quello di Cuticchi, nella zona di Lentini. I Baroni, in precedenza, infatti, avevano fatto allargare il letto del fiume per poter avviare la riso coltura con profitto. I guadagni di fatto furono cospicui, tanto da portare nelle casse dei baroni circa 10.000 onze nel giro di un triennio. Anche la macina aveva interessanti introiti per il Barone, dato che il prezzo della macinatura era di 2 tarì e 10 grani per ogni salma di riso rustico e 2 tarì e 10 grani per il trasporto di ogni salma di riso dal feudo di Sigona al mulino. Decisero, allora, di far fare due piccoli “controfossi” uno alla destra e uno alla sinistra dell’antico alveo del fiume, “larghi 8 palmi  e fondi 13”, a cominciare dalla parte finale del feudo dei Cuticchi. Una serie di piene del fiume suddetto, però, distrussero in pochi attimi tutto ciò che i Baroni avevano costruito, con notevoli perdite dal punto di vista economico. Il fiume Gornalunga non era nuovo a queste manifestazioni distruttive ed ogni volta  allagava ed inondava quasi tutto il detto feudo, sommergendo con l’acqua diversi generi di mercanzie, le colture di riso e soffocando nell’acqua diverse bestie (somari e puledri) utili all’attività economica. Si rivolsero, allora, al Tribunale del Real Patrimonio per chiedere che il Senato di Caltagirone, in quanto titolare del feudo, pagasse le spese necessarie per i ripari. I Caltagironesi, però, si rifiutavano poiché sostenevano che, sebbene la piena fosse avvenuta in un feudo appartenente al suo Patrimonio, i mezzi per l’allargamento del letto del fiume li avevano posti i baroni stessi che, con tale modifica avevano maggiorato la portata d’acqua del fiume, rendendolo maggiormente pericoloso.
Questo evento distruttivo non fu, come già detto, né il primo né l’ultimo dato che il Gornalunga è stato sempre un fiume un po’ “ribelle”. Ancora oggi passando per la SS 417 (volgarmente chiamata Catania-Gela), possiamo notare come sia il corso idrico più grosso e sporco, se messo in confronto al Simeto ed al Dittaino. Questo perché negli anni non si è proceduto ad una pulizia del letto, comportando, così, l’ingrossamento delle acque che vi scorrono.
Nonostante adesso la coltivazione del riso in questi luoghi è terminata, il fiume Gornalunga non ha mai smesso di ribellarsi alle modifiche umane a tal punto che, fino al 2010 è stato protagonista di esondazioni che, seppur non abbiano distrutto attività economiche, hanno messo a rischio numerose vite umane.

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